28 aprile 2002. E’ una domenica primaverile come tante, il cielo terso libera
un sole già caldo. Il lungomare di Livorno dovrebbe essere affollato allo
stremo, come da abitudine in ogni soleggiata giornata festiva. Eppure quel
giorno, quella domenica non è così: non ci sono famiglie a passeggio sulla
Terrazza Mascagni, non ci sono ragazzi ai tavolini delle baracchine. Solo
qualche coppia di anziani e un gruppo di ragazzine già quasi donne si godono
quel sole.
Livorno sembra deserta. Alle tre del pomeriggio la città piomba in un silenzio
ancor più surreale. Dove sono finiti i livornesi? Cosa li tiene lontani dal
loro amato mare? Semplice: l’appuntamento con la storia.
Il Livorno si gioca la Serie B, quella Serie B agognata per trenta lunghissimi
anni. E’ la partita decisiva. E’ vero, dopo questo turno ci sarà ancora una
sfida da giocare, ma affrontare al Picchi l’Alzano già condannato ai play-out
sembra essere una mera formalità. La promozione passa da qui: vivere o morire.
Fin dal primo mattino una carovana di pullman e auto si è messa in marcia,
direzione Treviso. Saranno in quattromila a riempire di amaranto il settore
ospiti dello stadio Tenni. Chi non ha potuto seguire la squadra in Veneto si
riunisce nei circoli e nei bar, a sperare e soffrire davanti a una vecchia
radiolina.
La tensione è opprimente. Troppe volte il sogno è svanito proprio quando il
traguardo sembrava essere a portata di mano. Un altro fallimento spezzerebbe
definitivamente le speranze di intere generazioni di tifosi, generazioni fin
già troppo provate.
La partita finalmente inizia. Dopo appena undici minuti il Livorno è già in
vantaggio. Sembra tutto semplice, anche fin troppo. E infatti il destino è già
là in agguato, pronto a colpire. Il colpo che potrebbe essere mortale è firmato
da Giacomo Lorenzini, un livornese della provincia che proprio nella stagione
appena passata quella maglia amaranto l’ha indossata per 33 volte. Assurdo. E’
l’1-1. Le porte del paradiso appena intravisto già si richiudono. Riaffiorano
vecchi fantasmi.
I minuti passano e il risultato di parità non si smuove. Un pareggio che
costerebbe il primo posto dopo un campionato condotto sempre in vetta.
Sarebbero così play-off, quei maledetti play-off troppe volte amari, quei
maledetti play-off persi nella finale di Como appena un anno prima.
Quell’incubo è ancora troppo vivo nella memoria dei livornesi, è ancora troppo
opprimente nella testa di chi quei play-off li ha vissuti sul campo: l’immagine
di Igor Protti in lacrime sul campo di Como è ancora davanti agli occhi di una
città intera. Una ferita ancora aperta.
Mancano solo cinque minuti al termine del match. L’ennesimo schiaffo del fato è
dietro l’angolo. Le lacrime stanno già per riempire gli occhi di un intero
popolo, ancora una volta. Le quattromila anime amaranto a Treviso sono
stremate. La maggioranza di loro era a Como, la maggioranza di loro era anche a
Perugia nel 1998, in occasione della drammatica finale contro la Cremonese.
Non c’è più forza neanche per sperare.
Non c’è più forza neanche per sperare.
Ma all’improvviso un lampo, accade ciò a cui ormai non credi più: lancio lungo
di Mezzanotti, Alteri spizzica di testa per Protti, il capitano controlla il
pallone, entra in area e tira: la sfera finisce in rete. E’ l’apoteosi.
Apoteosi dei livornesi al Tenni di Treviso, apoteosi dei livornesi riuniti nei
circoli e nei bar, apoteosi di una città. Le lacrime di dolore si trasformano
il lacrime di gioia. Protti si arrampica sulla rete che separa il campo dal
settore in cui sono stipati i tifosi amaranto. E’ la rinascita di un popolo,
l’orgoglio di chi dopo una lunga, infinita fatica ce l’ha fatta. La generazione
dei perdenti può finalmente gioire: il Livorno ha ritrovato un posto nella storia.